"Bene, riprendiamo. Utilizzi il termine bambino. Perchè?"
Ho conosciuto più persone che hanno dedicato ad una passione, tempi enormi della propria vita, curandola come se una moto, una racchetta, un giornale o un qualunque oggetto inumano, in realtà fosse un qualcosa dotato di anima, bisognoso di tutte le attenzioni del caso.
Non saprei dirle quando ciò che sto per dirle è avvenuto, ma un giorno, leggendo un articolo di approfondimento su un aspetto strategico del gioco, mi venne in mente una sorta di flash: vedo una scena in cui un padre infila il grembiule al figlio, abbassa il colletto, controlla i polsi, fissa il bambino negli occhi ed esclama "ok figliolo, sei pronto per la scuola".
Nell'attimo immediamente successivo a quella sorta di sogno, ebbi paura. Una paura fottutissima.
"Paura di cosa?"
Di perdere il controllo della situazione. Come le ho già detto, gli spettri della ludopatia si sono affacciati nella mia vita, tramite racconti di famigliari, prima ancora che io facessi conoscenza col congiuntivo del verbo avere. Quello che mi venne da pensare in quell'attimo fu che forse non ero più io ad avere il controllo su questa passione, ma che fosse lei ad averlo su di me.
Mi ci vollero un po' di giorni per sviscerare la questione. So che può sembrar folle ma in quei momenti volevo affrontare la situazione. Volevo essere certo di avere un controllo solido sulle cose.
Fuggo spesso da questioni simili che richiedono un'analisi mentale sui fatti accaduti. E' una mia grave mancanza. Ma quella volta no.
Ripensai a quel flash decine di volte nei giorni successivi e giunsi alla conclusione che tutt'ora sposo in pieno, senza ripensamenti.
Il poker si stava ricavando un posto tutto suo nella mia vita e mi stava manifestando la sua volontà di essere approcciato come qualcosa di serio. Non più un semplice gioco. Di certo non una dipendenza. Qualcosa più simile ad un lavoro o ad un impiego. Come un'azienda da portare avanti. Come l'allenamento per uno sportivo. Come qualunque cosa della vita che merita attenzioni affinchè possa funzionare. Come un bambino a cui un padre deve prestare attenzione prima di uscire, affinchè si presenti in aula, perfetto sotto ogni punto di vista.
Nell'attimo esatto in cui pronunciai tra me e me queste parole, quel marasma marasma presente nella mia mente, contenente anche paura, d'improvviso cessò di esistere. La tempesta era stata notevole. Ora però regnava la quiete.
Da quei giorni sono passati anni. Non ho mai avuto altre paure collegate al gioco, anzi. Più e più volte mi è capitato di utilizzare una sessione di gioco per ritrovare calma e serenità dopo una giornata pesante o dopo un litigio.
Oggi, caro Dottore, quel bambino a cui il padre infila il grembiule, è cresciuto ed è diventato un amico coetaneo col quale bere una birra in pace e fare quattro chiacchiere.
"La conclusione di questo suo excursus sembra cozzare col termine immediatamente successivo, ossia difficile. Qual è la chiave di raccordo?"
Ho bisogno di tempo per mettere assieme un discorso, Dottore.
Al prossimo incontro.
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